Lunar Aurora – “Weltengänger” (1996)

Artist: Lunar Aurora
Title: Weltengänger
Label: Voices Productions
Year: 1996
Genre: Symphonic Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Grabgesänge”
2. “Rebirth Of An Ancient Empire”
3. “Flammende Male”
4. “Into The Secrets Of The Moon”
5. “Schwarze Rosen”
6. “Conqueror Of The Ember Moon”

Nel respiro dell’eternità aleggia l’eco di un canto funebre dal suono sì dolce, sì crudele, che le ombre non riescono a  scardinare il maestoso cancello lunare che separa l’aldiquà dall’aldilà – o si tratta forse dell’osmotico compenetrarsi tra l’empirico finito e il tremendo là-bas? Ciò che importa è che solo la fredda mano del destino possiede la facoltà di profanare con la propria presenza quell’orrendo uscio, scacciando il velo delle esistenze profane; ed è proprio la forma in casi come questo a costituire quella conditio sine qua non, il vero discrimine tra chi è dentro e chi è fuori, la manifestazione più sinceramente tangibile di un decorso in fieri.

Il logo della band

Alle nozze d’argento diWeltengänger” l’ascoltatore non può che lasciarsi traghettare in un mare di sangue nero dove rose atre galleggiano acide; questa volta, però, non dispone di alcun obolo. Condannato ad errare in eterno e a languire tra le nebbie di un Acheronte i cui confini non sono che a malapena scorgibili, non gli spetta altro che attendere quella kalte Hand des Schicksals in compagnia di sé stesso, o meglio, della propria immagine riflessa. Il superamento della minaccia naïf di una lettura semplicistica, unidirezionale e – ormai, possiamo dirlo – convenzionale che vede nella discesa negli inferi uno dei motivi più gettonati di questo genere di musica, costituisce invero quel meraviglioso carattere di novità che, nella Germania anno ’96, davvero non poteva ancora essere compreso; compito del presente, quindi, è sostenere ad ogni costo, brandendo quella temibile arma, la spada dello spirito la cui lama incide anche l’ultimo accesso a tutta l’esistenza, un bisogno di riascolto, se non di rilettura. Allontaniamoci quindi da questi canti orfici – che, beninteso, nel booklet stanno relegati alle prime due righe –, sbarchiamo dal traghetto carontideo e abbandoniamoci a questo bellissimo sogno senza memoria.

La band

Il tuo viso, informe, scorre nell’oceano del vuoto, lo scettro dell’unità ha finalmente assunto una forma in te: già dalle prime battute di Grabgesänge” – uroborico incipit ed explicit di questo abbacinante abbandono ad un suono che guarda alla Norvegia coeva per mutarne di rimando gli intenti estetici -, tu, novello Narciso, vedi il profilo del tuo volto dissolversi in qualcos’altro, in qualcun altro. Non sei più quel bel giovinetto che si specchia nello stagno e ritrova la sua amabile immagine, non puoi più rifugiarti nel grembo che custodisce quel pacifico equilibrio tra la tua apparenza (la realtà naturale) e il tuo segno (la realtà artificiale); ora basta un soffio, un rantolo lontano o un petalo caduto in acqua per gettarti nel dubbio, ora intravedi sotto il velo della tua immagine il luogo privilegiato dell’incertezza, della perdita e del disfacimento. La liquida instabilità dell’acqua disperde i tuoi tratti; eppure continui a specchiarti, torni cocciutamente alla fonte; non si tratta di malinconia o di magico solipsismo, né dell’ormai dimenticato ardore. È sì passione, ma di quella inquinata da dentro, che ti corrode e ti fa smarrire. L’allora giovanissimo fratello maggiore dei due König già riusciva con il cofondatore Whyrhd a profilare in musica un’immagine tutta fumé, incastrando in un dialogo tutto liquido, già atmosferico e dilatato ben oltre l’appena pubblicato compagno blu “Moon In The Scorpio” o i più accessibili e compatti di un filone dai tedeschi incredibilmente inasprito (ufficialmente prima di “Hünengrab Im Herbst”, ma anche e non casualmente degli Odium o degli Obtained Enslavement su simili coordinate), il fare di chitarra e batteria gestita dal terzo pilastro Nathaniel; un’attenzione particolare è però fruttuosamente rivolta al  magistrale costrutto compositivo che ha nella tastiera (suonata per l’ultima volta dalla misteriosa Biil prima del fortunatissimo ingresso di Sindar da “Seelenfeuer” nel 1998) la sua più emblematica protagonista. È quest’ultima infatti che si confonde tra le trame, che traspare sinfonica dall’evidenza allo sfondo, che da figura unica diventa molteplice e multiforme. Impressionante rimane dunque il raffinatissimo gioco di luci ed ombre, la polimorfica strutturazione di melodie e voci strumentali. Quale moderno Proteo, essa guida l’ascolto tra gli anfratti tutto tuono di una batteria così martellante da divenire un unicum che tramite tonfi sordi pasce con promesse vane uno scenario luminoso ma scalfito da macchie di sangue nerissimo. Il carattere corale delle composizioni ben si esemplifica in un costante alternarsi e riproporsi di sequenze ora torbide, ora ferruginose, ora abbassate appena di mezzo tono – basti pensare a Rebirth Of An Ancient Empire” (ripresa e migliorata dal demo dello stesso 1996, pubblicato a febbraio sotto l’egida di “Auf Dunklen Schwingen”), dove la batteria guida una orchestra di frastuoni individualmente assordanti, nembosamente armoniosi se sentiti – ascoltati – all’unisono.
In Flammende Male” il testimone passa ad una chitarra caliginosa ma ben affilata, pronta a sopperire ancora una volta dinnanzi ad una tastiera che incanta, nei suoi fumi circensi, e nasconde con le proprie scandite cadenze un coro di voci in acqua. Poco oltre, nei dieci minuti suonati di “Conqueror Of The Ember Moon”, tali fulgide alonature vengono lacerate da un dramma dalla sonorità più acuta e spinosa, e frammenti di sentimento sulle lance della logica [diventano] inconoscibili nella natura della loro origine; un acre cataclisma di torsioni, in realtà totalmente privo del tanto, troppo facilmente decantato punto di riferimento emperoriano su cui posarsi e che costringe continuamente ad un movimento vorticosamente centripeto. Ecco che quindi l’incommensurabile distanza che divide l’orecchio dell’ascoltatore contemporaneo da un archè sonoro indimenticabile – chi altro ha pensato al riff finale che sigilla con una martellata su lama ancora ardente la conclusione del disco? – si fa via via più tiepida, perché in fondo sa che calare quel fendente significa sentirsi a casa (come devono essersi sentiti i quattro di Rosenheim nel sodalizio coi neonati Secrets Of The Moon che, forti nel 1996 giusto di un nastro ma dalla sensibilità comune, avrebbero condiviso tre anni dopo la loro prima uscita ufficiale proprio coi Lunar Aurora nello split “Auf Einer Wanderung / Durch Goldene Sphären”, qui molto probabilmente omaggiati in “Into The Secrets Of The Moon”); significa prender atto che si può vivere qualcosa di dimenticato. La mano fredda del Destino non può quindi che essere vista come una presa di coscienza, come essa stessa un ausilio carezzevole che culla verso quel mare oscuro delle ombre memore del tanto anelato riposo nel liquido amniotico, come principium divinarium abbagliante che tutto permea: dalla nascita alla morte, dalla morte alla nascita, [sono] le catacombe dell’essere dove i segni fiammeggianti ardono in una luce accecante. Il Fato accompagna infine le ombre al suo cospetto e, svelandosi, rivela loro la luce, il mistero dell’immortalità: io sono tutto ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo.

Narciso ora si confonde tra mito e storia, tra musica e lettura, tra l’ego-centrico sé e la più trasparente universalità: il dolore e la rassegnazione ad un destino che non è né di dannazione, né di eterna quiete – siamo lì, ancora sulla sponda, anche se stiamo ascoltando l’ultimo brano – ne frantuma i tessuti e ne modifica ininterrottamente la fisionomia. Egli vive in simbiosi con il proprio riflesso, è un corpo unico con quella liquidità, è parte molecolare di quel tragico gioco di unificazione e dispersione, di carne ed abisso; egli partecipa ad un naufragio che tuttavia intende decifrare. Il segno qui la fa davvero da padrone, nella sua astrattezza, nella propria cosmica capacità di disquisire dell’ineffabile. Ed è qui, nei luoghi lacustri di un Weltengänger”, nei liquori e nelle crete umide, tra i meandri del materno fossato pieno di acqua fangosa, che il problema della conoscenza e dell’essere si rivolge non più alla naturalità, ma all’artificio, all’apparenza, al linguaggio polimorfico e rituale della Morte. Affrontando il medium, canale privilegiato dell’espressione del sé, del sogno, del desiderio e dell’essere, vagando con il corpo di carne, ma con le tenebre più profonde nello spirito, sapendo di aver vinto sulla vita e la morte; quello che sappiamo ora, tuttavia, è che dietro la schiena stringeva nella mano ancora madida con esecrabile forza una moneta d’argento.

Sara “Vesperhypnos” Cönt

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